Il design italiano nel mondo (in Accademia, un po’ meno)

 

Per i Modenesi, lo stereotipo dei Cadetti dell’ Accademia è quello di giovani (da qualche tempo, di ambo i sessi) che passeggiano per la città fieri nella loro uniforme storica.

Per amore di verità va fatta una riflessione, un po’ ardua per chi non ha familiarità con quei panni. Si immagini di indossare una camicia con un alto e rigido colletto di plastica imbullettato giusto sul pomo d’ Adamo (e di Eva?). Si provi poi a chiudersi dentro un’ attillata giubba a doppio petto, sigillata da sette bottoni esterni più uno interno fra il collo e l’ addome ed anche da un paio di ganci metallici al bavero. Si aggiunga, nella stagione invernale, un lungo cappotto con la stessa architettura di bottoni e ganci. Si provi infine a calzare un paio di pantaloni tirati verso il basso dai sotto-scarpe e verso l’ alto dalle bretelle e ci si chieda, a questo punto, se esiste la minima possibilità che l’ essere umano chiuso dentro questa montura possa mantenere un’ atteggiamento meno che eretto e marziale.

 

Per inciso, un pizzico di irriverenza porta a dire che anche la famosa cantante Milly (al secolo Carolina Emilia Mignone) e la divina Marlene Dietrich seppero offrire fino all’ ultimo un’ immagine tonica ed impeccabile della propria esteriorità pure se, prive com’ erano dei benefici della moderna chirurgia estetica e del puntello dell’ uniforme storica, sembra che il prodigio fosse dovuto solo al vasto impiego di cerotti disposti ovunque sul loro ’’lato B’’.

Sia come sia, l’ iconografia classica intorno alla figura dell’ allievo si sintetizza in pochi aggettivi: compunto (con tutto quello che lo aspetta al rientro dalla libera uscita, il contrario meraviglierebbe), aitante (migliaia di gradini al giorno saliti e scesi di corsa sono una palestra perenne), snello (pasti frugali e di gusto opinabile, in porzioni calibrate al milligrammo, aiutano più di qualunque dieta); elegante (l’ abito fa il monaco) e ben portante (impacchettato com’ è, ha la stessa flessuosità di un paracarro).

Tutt’ altra cosa era l’ aspetto dell’ allievo di quarant’ anni fa nei vari momenti di vita interni. Proprio perché in occasione del raduno si è scoperto quanto l’ incalzare della modernità abbia trasformato il corredo del cadetto, certi incancellabili ricordi di allora meritano di essere citati e tramandati ad imperitura memoria. E la scelta è vasta.

 

Esisteva una pesante tuta da ginnastica di felpa blu che, lavatura dopo lavatura (denominazione ufficiale: ’’lisciviatura’’, anche se la lisciva era un ricordo del primo dopoguerra), si allargava sempre di più mentre si accorciava altrettanto ed il suo colore virava verso un delicato violetto. Concepita per lo sport, era soprattutto indispensabile per sopravvivere a letto d’ inverno quando le coperte pesanti come macigni ed il tepore dell’ alito di tutti gli allievi buoi-e-asinelli

che popolavano quel presepe profano si rivelavano insufficienti.

C’ erano le ruvide e pruriginose camicie marroni dell’ uniforme interna (ulteriore vanto del design italiano), del tutto impermeabili alla traspirazione e soffuse di olezzi ferini dopo la più modesta sudata.

Di un certo altro capo antidiluviano si è già detto altrove. Si aggiunge solo che oggi sarebbe curioso osservare la reazione di una leggiadra allieva se il suo comandate di plotone (se ne sono visti solo di sesso maschile) la interpellasse, come facevano quelli degli anni ’60: ’’mi mostri se indossa correttamente le giarrettiere’’.

 

L’ uniforme da truppa di foggia ex-alleata, prodotta con acume lungimirante in quasi una decina di diverse taglie, ben poco aveva da spartire sia con l’ originale e tipica eleganza britannica sia con il prestigio dell’ ’’haute couture’’ del nostro Paese.

Comunque, era prescritto che in occasione di molte attività esterne venisse indossata, completa di camicia e cravatta, sotto l’ uniforme (o informe?) da combattimento. Un certo comandante di compagnia, evocatore di un grande ammiraglio romano del III secolo A.C., in quelle occasioni ispezionava accuratamente tutti i suoi allievi e distribuiva a piene mani fra gli inadempienti i doni della sua prodiga fiscalità.

 

Continuare fino in fondo sarebbe lungo ma almeno un'altra ’’configurazione’’ merita di essere ricordata: quella prevista per la scuola-guida di motociclismo.

Come ogni momento trascorso fuori dai Palazzi, anche le giornate all’ Aero-autodromo generavano una comprensibile euforia. Già il trasferimento in autocarro, durante il quale non c’ era niente di obbligatorio da fare se non stare seduti, consentiva di ammirare il panorama (ma guai a voltarsi!) e di apprezzare quella microscopica vacanza, sempre meglio che niente. Poi, la vista che poteva spaziare nell’ immenso comprensorio ripagava dell’ angustia dei tanti cortili e cortiletti di ogni giorno in cui il cielo era un incerto accessorio. L’ emozione portava anche ad immaginare i bolidi della Ferrari in prova su quel circuito (in certi giorni il loro rombo arrivava fino in Accademia!) dove, di lì a poco, anche gli allievi avrebbero dato prova di sé. Infine, per gli appassionati, quello era il luogo delle prodezze di famosi piloti ma anche della tragica scomparsa dei campioni De Tornaco, Castellotti, Fraschetti, Faranda e Cabianca.

Come era avvenuto per il nuoto, gli allievi furono divisi fra esperti ed analfabeti. Tra i primi c’ era chi realmente sapeva cavarsela ma, al solito, si intrufolò anche qualche spudorato che, al massimo, aveva avuto un monopattino in tenera età. Sentendosi élite, chiacchieravano con giusto sussiego vantando le loro passate gesta a bordo di improbabili saette a due ruote, in viaggio verso i paradisi promessi dalle prorompenti e scatenate valchirie incollate a loro sul sellino posteriore. Gli altri allievi, fra cui furono ricacciati i millantatori (presto svelati), stavano in disparte con gli occhi dilatati dal terrore e si torcevano le mani pervasi da tremore inarrestabile, pallore cereo e stille copiose di sudore sulle labbra contratte.

 

Quando tutti furono bardati a puntino con l’ uniforme da combattimento (e gli altri regolamentari capi sottostanti), il giubbone di pelle nera, il casco con il paraorecchie

svolazzante e la provvidenziale banda imbottita tutt’ intorno, gli occhialoni ed i guanti, le riprese ebbero inizio. Gli esperti presero presto confidenza con le motociclette e se la spassarono un po’, mentre i neofiti impazzivano nel coordinare mani, piedi ed equilibrio. Uno, in particolare, soffriva le pene dell’ inferno nel tentare di ingranare la prima e procedere senza saltellare o spegnere il motore.

 

Ma la sua tenacia fu premiata. Quando finalmente riuscì a partire, niente e nessuno potè più fermarlo e c’è chi sostiene che ancora oggi, emulo del Vascello wagneriano, stia vagando per i cieli emiliani.

ultimo aggiornamento:14/03/2008 16.28 by PdeW